L'ascesa dei Comuni di popolo nel Duecento è un fenomeno unico. Scopri le loro riforme, il ruolo del Capitano del Popolo e il Liber Paradisus.
Se vogliamo capire veramente il cuore pulsante del Medioevo italiano, dobbiamo guardare alle città, ai laboratori di sperimentazione politica che fiorirono tra il Nord e il Centro della penisola.
Questi non furono semplici centri urbani autonomi, ma fucine dove la nozione stessa di governo, cittadinanza e diritto fu rivoluzionata. L'esperienza dei comuni italiani del Basso Medioevo è un fenomeno unico in Europa, ma al suo interno, il Duecento segna l'avvento di un cambiamento strutturale profondo.
È in questo secolo, infatti, che il vecchio ordine, dominato dal fragore delle armi aristocratiche, fu messo in discussione da una forza nuova, organizzata e, soprattutto, economicamente potente: il Popolo.
È essenziale capire subito che il "Popolo" non indicava l'intera massa dei residenti, bensì una parte politica ben definita, composta dai ceti produttivi, mercanti e artigiani, che avevano accumulato ricchezza grazie alla "rivoluzione commerciale" in atto e che si sentivano esclusi dalla gestione della cosa pubblica.
Questo articolo traccerà il cammino di questa vera e propria rivoluzione politica, analizzando come il Popolo si sia organizzato, quale fosse la sua ideologia alternativa e come sia riuscito a imporre un sistema di doppio governo con figure chiave come il Capitano del Popolo.
Esamineremo le rivendicazioni di giustizia e trasparenza e culmineremo con un episodio simbolo di questa era: l'affrancamento dei servi a Bologna nel 1256, un atto di altissimo valore morale e di dirompente strategia politica.
Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, le società cittadine erano strutturate attorno al dominio incontrastato dei milites, i cavalieri. Questi non erano semplicemente soldati, ma l'élite sociale ed economica. Erano proprietari di terre che vivevano di rendita e, in ragione del loro servizio militare a cavallo, godevano di esenzioni totali dalle collette, le prime forme di tassazione pubblica.
Il potere dei milites si basava su due pilastri interconnessi: la violenza ostentata e il controllo culturale. Le loro azioni militari, note come "cavalcate", spesso si traducevano in saccheggi e la loro connotazione violenta si manifestava anche all'interno delle mura urbane.
Monopolizzavano le cariche politiche e usavano la forza per esercitare forti pressioni sugli "inermi", coinvolgendo le fasce più deboli in vaste reti clientelari mirate all'affermazione personale.
È importante notare che l'esercizio della violenza non era un difetto collaterale, ma un tratto distintivo di questa classe. Tuttavia, proprio la loro continua tendenza alle faide e alle lotte interne, pur servendo a consolidare la preminenza personale di singoli casati, costituiva un ostacolo concreto alla vita produttiva della città.
Le strade cittadine e le vie del contado erano insicure, un fattore che pesava enormemente sulla neonata "rivoluzione commerciale".
A complicare la situazione per la vecchia aristocrazia c'era la loro superiorità culturale e legale. Essi esprimevano un modello di preminenza non solo basato sul lusso e sulla forza, ma anche sul diritto: i giudici dei tribunali urbani e gli esperti di diritto provenivano in larga misura da questo ceto. La legge, quindi, rischiava di essere uno strumento nelle mani di chi deteneva la forza, alimentando l'arbitrio e i favoritismi.
A partire dalla fine del XII secolo, questa preminenza cominciò a scricchiolare. La crescita economica urbana, alimentata da commercianti e artigiani, permise a questi ceti di accumulare fortune consistenti. Essi contribuivano attivamente all'aumento del benessere diffuso, mentre i milites rimanevano ai margini di questo processo. Quando la preminenza economica dei cavalieri fu erosa, il loro monopolio politico cadde in discussione in modo "brusco e violento".
Le prime avvisaglie di questo scontro sociale e politico si ebbero con le rivolte urbane nei primissimi anni del Duecento: a Reggio Emilia nel 1199, a Padova nel 1200, a Lucca e Milano nel 1203, e a Bergamo e Vicenza nel 1206. Era il Popolo che faceva il suo ingresso sulla scena, reclamando un posto al sole.
Per comprendere come il Popolo sia riuscito a imporsi, è fondamentale analizzare la sua straordinaria capacità di organizzazione, nata dal basso. Il Popolo era la forma politicamente strutturata di tutti quei cittadini che non appartenevano al gruppo dei milites e che si proponevano di rappresentare interessi e istanze spesso diametralmente opposte a quelle dei loro antagonisti.
Questa "parte politica" si costruì coordinando una vasta gamma di associazioni spontanee (societates) che si erano affermate nel tessuto urbano, rapido e in espansione.
La forza del Popolo risiedeva nella convergenza di tre tipi principali di associazioni, unite tramite giuramenti:
Questa fitta rete di solidarietà orizzontale basata sul mestiere, sul quartiere e sul servizio militare, era il netto contraltare delle reti verticali e clientelari che caratterizzavano il potere aristocratico. La convergenza di queste associazioni in una societas unitaria permise al Popolo di trasformare le richieste professionali ed economiche in un programma politico unitario.
Da questa unione nacque l'istituzione fondamentale della nuova entità politica: il Consiglio del Popolo, un'assemblea molto numerosa che dava rappresentanza a tutte le societates aderenti.
Quando il Popolo riuscì a ottenere le prime forme di partecipazione politica, esso portò con sé un sistema di valori alternativo e radicale, in netto contrasto con l'etica aristocratica. Le rivendicazioni popolari si possono riassumere in tre grandi assiomi.
La richiesta più urgente e ideologicamente potente era quella di pace, sia interna che esterna alla città. Le continue faide armate condotte dalle famiglie aristocratiche all'interno delle mura non solo rappresentavano un pericolo costante per la vita dei cittadini, ma erano un freno insostenibile alla circolazione delle merci e degli uomini. Per i ceti produttivi, la sicurezza (la pace) era la precondizione per la prosperità.
Questa richiesta di pace servì a delegittimare l'intero modello aristocratico, dipingendo la violenza privata come il principale nemico del benessere collettivo. Il Popolo si presentava come il garante dell'ordine e della concordia.
Il secondo punto, di natura economica ma di profonda valenza etica, riguardava la ripartizione delle collette. Fino ad allora, le tasse erano state pagate "per testa" (in misura uguale per tutti), con la clamorosa eccezione dei milites, che erano esentati in virtù del loro servizio di cavalleria.
Il Popolo chiese una riforma epocale: che le tasse fossero calcolate sulla capacità contributiva di ciascuno, sulla base del patrimonio personale, senza esenzioni. Questo segnò il tentativo di passare da un sistema fiscale di privilegio basato sul status a uno, per quanto rudimentale, basato sulla ricchezza effettiva, principio essenziale per i gruppi che generavano ricchezza liquida.
Infine, il Popolo esigeva procedure amministrative e giudiziarie trasparenti, ancorate a regole certe e registrate in forma scritta. La motivazione era chiarissima: le decisioni non dovevano più dipendere dall'arbitrio di un giudice o dai legami clientelari dei potenti.
L'uso della scrittura divenne, in questo contesto, un'arma di controllo e di garanzia. Il Popolo, abituato alla precisione dei contratti commerciali, importò la razionalità del commercio nella gestione della cosa pubblica. La legge, registrata e verificabile, era l'unica assicurazione contro l'abuso di potere, elevando la figura del notaio e del giurista al ruolo di guardiani dell'ordinamento civile.
La differenza tra le due forze in campo era netta e si manifestava su ogni aspetto della vita pubblica, come evidenziato in questa tabella comparativa.
L'ascesa del Popolo non fu lineare. Dopo le prime concessioni ottenute con le rivolte del primo Duecento, il vero salto di qualità avvenne sotto la pressione del potere imperiale. Tra la fine degli anni Venti e gli anni Quaranta del secolo, la ricostituita Lega Lombarda si scontrò in una lunga guerra contro l'imperatore Federico II di Svevia.
Il conflitto si aprì ufficialmente con la Dieta di Cremona del 1226, dove Milano e gli altri comuni della Lega furono messi al bando. Non tutte le città furono ostili a Federico II, portando alla celebre divisione tra Guelfi (antimperiali, come Milano) e Ghibellini (filoimperiali, come Cremona, Parma e Bergamo).
Federico II comprese immediatamente il pericolo rappresentato dalle organizzazioni popolari, vedendole come una minaccia alla sua politica di coordinamento centralizzato. Per questo motivo, intervenne direttamente nella vita interna delle città, cercando di frenare il Popolo e alleandosi in genere con la militia. Un esempio lampante fu l'ordine emanato nel 1226 per sciogliere tutte le societates popolari di Pavia, tentativo replicato in altre città padane. In Romagna, dopo aver conquistato Faenza nel 1241, l'imperatore consolidò il proprio potere nominando podestà imperiali.
Paradossalmente, l'ostilità di Federico II accelerò l'ingresso formale del Popolo al governo. La guerra era un'impresa estremamente costosa. L'aristocrazia (i milites) era esentata dalle tasse e la sua ricchezza fondiaria non era facilmente mobilitabile. I ceti mercantili e artigiani, invece, detenevano la ricchezza liquida necessaria per finanziare la Lega Guelfa.
Per ottenere il sostegno finanziario e la manodopera (i pedites) essenziale, i vecchi detentori del potere furono costretti ad accettare un governo condiviso tra milites e populares. La necessità militare portò, quindi, all'inclusione politica.
Il punto di svolta arrivò nel 1249 con la vittoria dei bolognesi a Fossalta e la cattura di Enzo, figlio di Federico. Solo un anno dopo, nel 1250, l'improvvisa morte di Federico II affossò definitivamente il progetto imperiale e rimosse il principale ostacolo all'affermazione dei regimi popolari.
Fu a partire dal 1250 e fino al 1255 che le magistrature popolari caratteristiche emersero formalmente in numerose città, tra cui Orvieto, Siena, Viterbo, Pisa, Bologna e Perugia. Questo ritardo, rispetto alle prime rivolte di inizio secolo, conferma quanto fosse cruciale la politica imperiale nell'impedire l'ascesa del Popolo.
L'affermazione del Popolo non cancellò il passato, ma lo affiancò con nuove istituzioni, dando vita al complesso fenomeno del "raddoppiamento" del sistema di potere. Le istituzioni comunali originarie (Consigli e Podestà) continuarono a esistere, ma convissero con le nuove magistrature popolari, creando un equilibrio, talvolta precario, che variava di città in città.
La figura centrale del nuovo ordinamento era il Capitano del Popolo, la controparte popolare del Podestà. Come il Podestà, era un professionista forestiero, scelto per garantire l'imparzialità e per evitare che fosse coinvolto nelle faide locali, e la sua carica durava in genere un anno.
Il Capitano deteneva poteri ampi e vitali per il Popolo, esercitando funzioni:
Accanto al Capitano, il Collegio degli Anziani (o Priori) rappresentava il vero vertice dell'autorità cittadina popolare. Gli Anziani venivano eletti dal Consiglio del Popolo e provenivano dai capi delle diverse societates, spesso i vertici delle corporazioni più ricche.
Questi Anziani formavano un consiglio ristretto che sosteneva le iniziative del Capitano e deliberava sulle questioni più importanti, fungendo da organo esecutivo della parte popolare. Erano il cuore politico del nuovo regime, in grado di rappresentare gli interessi concreti dei gruppi produttivi nelle istituzioni del comune.
La persistenza del Podestà e del Capitano in un unico comune può sembrare un'inefficienza, ma in realtà era una sofisticata costituzione di compromesso. Il doppio sistema di potere garantiva l'equilibrio tra le due principali componenti sociopolitiche della città, i milites e i populares.
Il Podestà manteneva la continuità legale e l'accettazione da parte dell'aristocrazia, mentre il Capitano del Popolo assicurava l'applicazione intransigente delle istanze popolari, in particolare riguardo alla giustizia e alla fiscalità. Solo in rari casi, come a Padova, il Popolo riuscì a governare le istituzioni comunali senza bisogno di creare magistrature distinte, integrandosi direttamente nei vecchi organi.
Se vogliamo un esempio concreto e spettacolare della potenza ideologica e strategica del governo di Popolo, dobbiamo spostare la nostra attenzione su Bologna, una città che già dal 1248 aveva affermato il regime popolare.
Il giorno è il 25 agosto 1256. È un venerdì, giorno di mercato, e la città è affollata da uomini e donne, molti dei quali provenienti dal contado. Nella piazza del Comune, la campana dell'arengo richiama la popolazione. Il Podestà e il Capitano del Popolo annunciano congiuntamente una decisione storica: la liberazione di 5.855 servi, appartenenti a ben 403 diversi signori, che vivevano in condizione di servitù sia in città che nel contado.
Il Comune di Bologna non si limitò a dichiarare la libertà; la pagò, investendo una somma enorme: 54.014 lire d'argento bolognesi. Dieci lire venivano pagate per ogni persona maggiore di 14 anni, e otto lire per i bambini. Per registrare i nomi dei proprietari e dei servi liberati, furono redatte quattro liste (una per quartiere) e raccolte in un registro destinato a passare alla storia: il Liber Paradisus.
I prologhi di questo testo usavano una retorica raffinata per esprimere la finalità politica della decisione. L'argomento era di altissima levatura morale: poiché tutti gli uomini sono stati creati uguali da Dio e redenti da Cristo, liberare i servi significava ripristinare una comunità originaria, eliminando la sopraffazione dei più forti sui più deboli. Questo testo divenne un inequivocabile manifesto ideologico del governo popolare bolognese.
Dietro l'efficacia legale e amministrativa di un atto così complesso c'era la maestria del giurista Rolandino de' Passaggeri (1215-1300), uno dei massimi esponenti della scienza notarile medievale. La sua opera Summa Totius Artis Notariae (risalente al 1255) era il testo di riferimento per i notai europei. Rolandino fu tra coloro che firmarono il Liber Paradisus nel 1257 (l'anno in cui le liste furono completate e l'atto divenne operativo), garantendo che la mossa politica fosse blindata dal punto di vista del diritto.
L'episodio del Liber Paradisus è un esempio perfetto di come l'idealismo cristiano e la strategia politica potessero convivere. Se da un lato si sbandierava l'uguaglianza, dall'altro l'atto celava un potentissimo effetto anti-signorile.
Il vero colpo di genio non fu solo la liberazione, ma ciò che accadde dopo. I servi venivano sottratti alla dipendenza dei signori rurali e automaticamente trasformati in comitatini, cioè uomini soggetti al dominio diretto e alla giurisdizione urbana. Ciò significava che, da un giorno all'altro, questi nuovi cittadini erano soggetti alle imposte e al giudizio dei tribunali comunali. L'enorme spesa sostenuta dal Comune fu, di fatto, un investimento strategico per espandere il proprio controllo territoriale, fiscale e giurisdizionale, minando in modo decisivo il potere fondiario e il prestigio dell'aristocrazia rurale.
L'episodio bolognese è perfettamente inquadrato nella volontà politica del Popolo di organizzare l'intero territorio circostante (contado) come un dominio diretto della città. I regimi popolari volevano superare il vecchio rapporto di convivenza con le giurisdizioni signorili che aveva caratterizzato i comuni cavallereschi.
Il controllo del contado era essenziale per la sicurezza delle vie commerciali e per l'approvvigionamento alimentare, ma soprattutto per garantire l'uniformità del prelievo fiscale. La centralità della città doveva estendersi fino ai confini del suo dominio.
Questa ideologia di controllo territoriale integrato trovò la sua massima e più celebre espressione iconografica negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove (o Sala della Pace) del Palazzo Pubblico di Siena.
Dipinti tra il 1338 e il 1339, gli affreschi noti come Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo non sono solo opere d'arte, ma veri e propri manifesti politici voluti dal governo senese, noto come il Governo dei Nove (un regime popolare-mercantile).
Nella sezione degli Effetti del Buon Governo, Lorenzetti raffigura città e campagna come un sistema perfettamente ordinato e integrato, governato dalla medesima autorità. Si vedono i cittadini dedicarsi in sicurezza alle Arti, mentre nei campi i contadini lavorano e i mercanti si spostano senza timore. Attraverso un linguaggio visivo potente, l'affresco offriva l'immagine ideale del potere popolare: un governo capace di assicurare la pace e l'ordine necessari alla prosperità, contrastando il caos e la violenza che inevitabilmente sopraggiungevano sotto il Cattivo Governo.
Nonostante la retorica del Popolo fosse incentrata sulla pace e la concordia, la realtà politica era ben diversa. Le violenze e i conflitti non cessarono, ma assunsero nuove vesti, spesso polarizzate attorno ai nomi di Guelfi e Ghibellini. Queste etichette, sebbene avessero radici nel grande conflitto universale tra Papato e Impero, servivano soprattutto a dare un quadro di riferimento a schieramenti che avevano spesso origini e interessi puramente locali.
Il Popolo resistette a lungo alle logiche di fazione, costruendo la sua legittimazione proprio sull'ideale della concordia. Ma quando i protagonisti degli scontri interni si rivelarono impossibili da controllare, alcuni regimi popolari decisero di ricorrere a un'azione legislativa estrema: la legislazione antimagnatizia.
Questi provvedimenti si rivolgevano ai "magnati", un termine nuovo e non rigidamente definito. I magnati erano una categoria sociale che richiamava lo stile di vita dei vecchi milites, ma che poteva includere anche membri di famiglie popolari arricchitesi (Popolo Grasso) che, una volta raggiunto il successo economico, ne replicavano i comportamenti: violenza, prepotenza e fedeltà di parte.
È cruciale sottolineare che la legislazione antimagnatizia non era solo un atto di esclusione sociale contro l'antica nobiltà. Il suo scopo principale era la repressione di un comportamento politico destabilizzante, mirante a imporre un primato dell'autorità pubblica. Le norme condannavano l'uso della violenza come strumento di lotta politica e vietavano le fedeltà di parte che potessero prevalere sulla lealtà dovuta alle istituzioni cittadine.
L'esempio più celebre di questa legislazione si trova a Firenze. Gli Ordinamenti di Giustizia del 1293 imposero pene aggravate per i crimini violenti commessi dai magnati e, soprattutto, li escludevano dall'esercizio degli uffici pubblici.
Per aggirare queste restrizioni e partecipare alla vita politica, i magnati dovevano iscriversi a una delle Corporazioni (Arti). È un aneddoto storico celebre il fatto che Dante Alighieri, di famiglia non magnatizia ma comunque benestante e desideroso di accedere alla politica attiva, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali nel 1295, sfruttando proprio questa norma popolare per iniziare la sua carriera pubblica.
La legislazione antimagnatizia era un tentativo disperato di imporre il codice etico del Popolo, basato sull'ordine e sulla legalità, su una classe dirigente che continuava a vedere nelle faide e nella violenza gli strumenti legittimi per l'affermazione politica. A Bologna, ad esempio, la legislazione antimagnatizia del 1288 usava la famosa metafora dei lupi e degli agnelli per identificare i magnati come predatori e i popolani come vittime da difendere.
Il tentativo del Popolo di disciplinare la violenza non sempre ebbe successo. In alcune aree, l'incapacità di trovare una stabilità interna e l'emergere di figure carismatiche e aggressive portarono a una transizione verso la Signoria, un'altra forma di governo che caratterizzò il tardo Duecento.
In regioni come il Veneto, la Romagna o il Piemonte orientale, l'antica tradizione signorile e la forza dei grandi casati aristocratici (che detenevano ancora un dominio efficace e vasto nel contado) impedirono l'affermazione duratura del Popolo. Famiglie come gli Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, o i Da Camino a Treviso, riuscirono a imporre le loro reti di fedeltà verticali sui legami orizzontali del Popolo, facendo sì che la fase popolare fosse breve.
Il modello di dominio personale fu offerto da figure precoci emerse durante il conflitto con Federico II. Il caso più noto è quello di Ezzelino III da Romano (1194-1259), un ghibellino che, sfruttando l'appoggio imperiale negli anni Trenta, si creò un vasto dominio personale nella Marca trevigiana (Padova, Verona, Vicenza).
Ezzelino fu valoroso e spietato nella sua volontà di dominio. Sebbene la sua morte nel 1259 pose fine al suo regime, la memoria della sua autorità autocratica rimase un "esempio possibile da seguire".
È storicamente scorretto vedere la Signoria come una semplice "involuzione" o "arretramento" del Comune di Popolo. La Signoria fu una forma di governo originale. Essa si affermava come scelta politica quando si riteneva necessario far prevalere l'autorità personale autocratica sulla dialettica, spesso paralizzante, dei consigli comunali.
Questa scelta, inoltre, non era definitiva. In molte realtà urbane, il Comune di Popolo e la Signoria si alternarono più volte, mostrando la fluidità del sistema politico medievale.
Un elemento cruciale e spesso sottovalutato è come i Signori si legittimassero. Per imporre il loro potere personale, non distruggevano le strutture comunali esistenti; al contrario, le inglobavano. Il sistema prevedeva, infatti, che al Signore fosse attribuito a vita un incarico istituzionale chiave, come quello di Capitano del Popolo o di Podestà, assumendone tutti i poteri associati.
Il fatto che persino un potere personale e autarchico dovesse rivestirsi della carica di Capitano del Popolo dimostra la straordinaria resilienza delle istituzioni create dal Popolo. Il Popolo, pur perdendo il controllo politico effettivo in favore del Signore, aveva reso impossibile per qualsiasi regime futuro prescindere dalla forma del diritto e dell'organizzazione pubblica.
I Comuni di Popolo furono un'esperienza politica di straordinaria intensità, caratterizzata da violenza, idealismo e innovazione amministrativa. Essi non realizzarono l'utopia della pace perfetta o della democrazia moderna, ma la loro azione lasciò un'eredità irreversibile, che modificò per sempre la cultura politica italiana.
L'impatto più duraturo del Popolo risiede nel trionfo della razionalità amministrativa e della legge scritta sul potere arbitrario del singolo. Il Popolo, infatti, rese imprescindibili tre principi che sono i pilastri dell'organizzazione statale successiva:
Questa complessa eredità, frutto della tensione tra milites e populares, assicurò che, anche quando l'autorità personale delle Signorie prevalse, essa fu costretta a operare entro un quadro istituzionale e legale che il Popolo aveva plasmato. La vittoria finale, in termini di metodo politico, fu dunque dei ceti produttivi: il notaio e il mercante avevano, con la penna e con la ragione, sconfitto la forza bruta del cavaliere.
Articolo pubblicato il 15/11/2025
Ultimo aggiornamento il 15/11/2025