Dante Alighieri era un Guelfo, e più precisamente un Guelfo Bianco. Schieratosi contro le ingerenze politiche di Papa Bonifacio VIII, fu esiliato nel 1302 dai rivali Guelfi Neri. Solo negli anni dell'esilio, deluso dalla sua fazione, guardò con speranza all'Imperatore Arrigo VII, guadagnandosi la definizione foscoliana di "Ghibellin fuggiasco".
Pubblicato: 30/12/2025
Ultima modifica: 30/12/2025
Firenze alla fine del Duecento non è la città rinascimentale ordinata che conosciamo oggi, ma un vero e proprio campo di battaglia urbano, ricco di torri e dominato dalla paura. Per capire se Dante era Guelfo o Ghibellino, dobbiamo prima immergerci in questa atmosfera incandescente.
Dopo decenni di faide, nel 1266 i Guelfi (sostenitori del Papa) avevano definitivamente cacciato i Ghibellini (sostenitori dell'Imperatore) dalla città. Ma come spesso accade nella storia, eliminato il nemico comune, i vincitori iniziarono a litigare tra loro. È a questo punto che il partito Guelfo si spacca in due fazioni rivali, una divisione che segnerà il destino del nostro poeta.
Dante, entrato attivamente in politica negli anni '90 del Duecento, si trovò di fronte a una scelta obbligata. Nonostante la sua famiglia fosse di tradizione guelfa, la situazione era complessa. I Guelfi si erano divisi in:
Guelfi Neri: Capeggiati dalla potente famiglia dei Donati (a cui apparteneva, per ironia della sorte, anche Gemma, la moglie di Dante). Erano stretti alleati del Papa e disposti a consegnargli il controllo totale di Firenze, anche economico.
Guelfi Bianchi: Guidati dalla famiglia Cerchi. Pur rimanendo fedeli al Papa spiritualmente, difendevano strenuamente l'autonomia politica della città e volevano che il Pontefice non si intromettesse negli affari di governo.
Dante si schierò apertamente con i Guelfi Bianchi. Per lui, il Papa doveva occuparsi delle anime, non della politica fiorentina.
La carriera politica di Dante raggiunse l'apice nel 1300, quando venne eletto Priore, la massima carica cittadina. Ed è qui che la storia si fa umana e drammatica. Per mantenere l'ordine, Dante fu costretto a un gesto doloroso: firmò l'esilio per i capi più rissosi di entrambe le fazioni. Tra questi c'era il suo "primo amico", il poeta Guido Cavalcanti, e il violento Corso Donati, capo dei Neri.
Ma dall'altra parte della scacchiera c'era un giocatore formidabile: Papa Bonifacio VIII. Il Papa, vedendo nei Bianchi un ostacolo alle sue mire espansionistiche sulla Toscana, preparò una trappola perfetta.
Nel 1301, mentre Dante veniva inviato a Roma come ambasciatore per cercare una mediazione diplomatica, il Papa trattenne il poeta nell'Urbe con l'inganno. Nel frattempo, inviò a Firenze Carlo di Valois, fratello del re di Francia, ufficialmente come "paciere".
La realtà fu ben diversa: Carlo di Valois entrò a Firenze e favorì sfacciatamente i Guelfi Neri, che presero il potere con la violenza, saccheggiando e incendiando le case degli avversari. Dante, ignaro e lontano, fu colpito alle spalle.
Il Podestà Cante Gabrielli istruì contro di lui un processo politico farsesco. L'accusa formale era di "baratteria" (corruzione), ma il vero motivo era la sua appartenenza ai Bianchi. Le sentenze furono terribili:
27 Gennaio 1302: Condanna al pagamento di una multa e all'esilio.
10 Marzo 1302: Poiché Dante non si era presentato (sapendo di essere innocente e in pericolo), fu condannato al rogo se fosse mai stato catturato.
È in questa fase che nasce l'equivoco sul suo essere "Ghibellino". Nei primi anni d'esilio, Dante tentò di rientrare a Firenze con la forza insieme agli altri esuli (la cosiddetta Compagnia malvagia), avvicinandosi tatticamente ai Ghibellini. Tuttavia, dopo il fallimento di tentativi militari come la Battaglia di Lastra (1304), a cui Dante saggiamente non partecipò, il poeta si isolò, facendo "parte per se stesso".
Solo più tardi, con la discesa in Italia dell'imperatore Arrigo VII (Enrico VII) (1310-1313), Dante recuperò ideali filo-imperiali, sperando che un forte potere laico potesse pacificare l'Italia. Ecco perché Ugo Foscolo lo definì il "Ghibellin fuggiasco", ma tecnicamente Dante restò un esule Guelfo Bianco deluso dalla politica di parte.
Se Dante fosse rimasto un politico di successo a Firenze, probabilmente oggi non avremmo la Divina Commedia. L'esilio, ingiusto e crudele, lo costrinse a vagare per le corti del nord Italia (dagli Scaligeri a Verona fino ai Da Polenta a Ravenna), trasformando la sua visione da "municipale" a "universale".
La sconfitta politica dei Guelfi Bianchi divenne, paradossalmente, la più grande vittoria per la letteratura mondiale: avendo perso Firenze, Dante guadagnò l'umanità intera.
Studente di Storia
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